Pesach, in ebraico, significa passare oltre: attraversare. Pesach (…) festeggia anche la possibilità che la nostra parte più autentica sia quella che supera un trauma. Che passa oltre. Che ci permette di cambiare, ma non ci costringe a diventare diversi: anzi. Ci fa scivolare in pieno contatto con la vocazione profonda a cui veniamo chiamati per essere proprio la persona che siamo.
La quarantena, per me, come consapevolezza profonda del significato dei confini. Non tanto di quelli imposti dalle regole della convivenza per la comune sicurezza, quanto più quelli che delimitano lo spazio vitale ed esistenziale di ciascuno di noi.
La quarantena come presa di contatto con i miei confini personali, di cui prima mi ricordavo – vagamente – solo quando lasciati travalicare. Per la voglia di far tutti contenti, per l’incapacità di delimitare, per una altissima soglia della percezione di soffocare (che, puntualmente, arriva quando l’invasione è totale e difficilmente reversibile). Ah, ma allora c’era una linea di demarcazione che si poteva (far) rispettare!
La quarantena come occasione per «spiritualizzare le restrizioni a cui siamo stati costretti, senza renderle completamente metaforiche», a partire « dal valore che ha la barriera di un metro, sia quando si infrange che quando si rispetta. Dalla possibilità di una mascherina che siamo noi a decidere di infilare. Dalla differenza tra il miracolo di incontrarsi e il rischio di assembrarsi». Dal rischio, quando non si rispettano i confini, di invadersi, confondersi, perdersi. Dalla bellezza del contatto, quando è la riposta a un “avvicinati“.
La quarantena, per me, è stata la possibilità di toccare con mano quello spazio liminale che separa “me” da “te”, quei bordi ben definiti che definiscono un’identità e per superare i quali bisogna sempre chiedere il permesso. Un’occasione di riconoscere (quale sorpresa!) i miei contorni e ricordarmi che sono io poter a decidere, di volta in volta, a chi e come dire “avanti!”.
La quarantena come recupero di una intimità dai ritmi sincronizzati con il respiro. Il confine domestico, separando il fuori dal dentro, ha imposto una pausa, una sospensione dal consueto brusio di esistenze altrimenti saturate di impegni; l’esterno precluso e la casa vissuta hanno portato lo sguardo a rivolgersi verso se stessi. Una introspezione, per altri insopportabile, che nel mio caso ha messo in luce priorità non più negoziabili.
La quarantena, come distillato di ciò che è davvero essenziale, ha derubricato a superfluo la più parte di ciò-che-era-prima avvicinandomi di un passo a una vita che mi assomiglia davvero. Ha puntato un faro sul mio “io” e sul mio “adesso”: premesse da accogliere e coltivare imprescindibilmente per far spazio all'”altro” e al “poi”.
La quarantena come costruzione, tutt’altro che egoista, di un “io” definito, consapevole delle proprie ragioni e dei propri desideri. Di un “io” che è linea di demarcazione e passaggio tra identità, quindi possibilità dell’incontro; un confine poroso, «in grado di alimentare lo scambio con l’alterità per allargare l’orizzonte del mondo». Un limitare che può non essere limite, ma un invito a passare oltre.
Perché, come ha scritto Chiara Gamberale leggendomi nel pensiero, « il dire io in cui confido» è la possibilità di quel «passare oltre, Pesach, e tornare voilà giusto al centro del palpitare del mondo (…) Per riuscire, dopo tutto questo, a dire di nuovo Tu. Lui, lei. Noi.»
Era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere.
[Mantenére v. tr]
1. Tenere qualcosa in buone condizioni in modo che duri a lungo: di oggetti e ricordi, di contatti e tepore della stanza. Di non dare per scontato, di linfa costante. Di pazienza e cura, di riparare quando sarebbe più semplice rimpiazzare. Non lasciare andare. Mantenere in vita. Custodire che è cura.
2. Tenere fede, rispettare. Di patti e promesse, di impegni e parole. Di segreti figli della complicità. Di desideri e identità. Di coerenza e costanza.
3. Persistere. Di opinioni e convincimenti, di valori a cui proprio non si può rinunciare; di posizioni difese anche quando tutto sembra voler spingere a desistere. Conservare. Resistere.
4. Tenere per mano. Sentire e sentirsi. Protezione silenziosa e potente, antidoto che sconfigge la paura fin da bambini. Intimità che non molla la presa, che sa reggere il peso del tempo e la sfida delle intemperie. Custodire. Farsi due, «che è il contrario di uno, della sua solitudine».
Per quest’anno non desidero nulla di più di quello che già c’è sotto l’albero: gratitudine, in pacchetti dai mille colori.
Gratitudine per la consapevolezza che famiglia non fa rima con DNA; ma è quella in cui si inciampa e in cui si sceglie ogni giorno di rimanere; “famiglia” sono quelle anime belle pronte a rispondere anche agli appelli più flebili, quando la voce o le parole mancano.
Gratitudine per il calore di quella che posso chiamare casa: le quattro pareti colorate che parlano di me, che mi ricordano chi sono, insieme a tutti quei posti che ho sentito “giusti” e che è sempre festa ritornarci.
Gratitudine per chi se n’è andato, lasciando più spazio a chi avuto voglia di farsi avanti e restare.
Gratitudine per l’autenticità di ogni presenza che mi circonda, che ha spazzato via ambiguità e tornaconti, facendo posto alla bellezza del disinteresse.
Gratitudine per la consapevolezza che ogni successo va celebrato, anche solo con un cin cin a base d’acqua e un sorriso, e mai taciuto con lo spirito del “cosa vuoi che sia!”.
Gratitudine per la pazienza, coltivata e ricevuta, gratitudine per l’impegno: che la bellezza è nel costruire. Mattone dopo mattone, passo dopo passo.
Gratitudine per la me bambina, di recente (ri)conosciuta, che torno ad abbracciare ogni volta che posso per ricordarle che non conta ciò che è stato, ma ciò che può essere.
Gratitudine per la forza che cresce dentro di me, per la gentilezza che germoglia e si moltiplica.
Gratitudine per l’amore, che mi circonda e che provo.
Gratitudine per tutta la strada fatta fino a qui e per quella che mi aspetta.
Gratitudine per non aver mai smesso di credere in Babbo Natale e nella speranza che porta con sé.
«Mi avevano detto che il passato condiziona il futuro, ma non mi avevano detto che vale anche il contrario: il futuro riscrive il passato, come l’ultima pagina di un romanzo trasfigura tutto quello che è stato letto a tal punto che a volte è necessario rileggere.»
Qualche giorno fa ho festeggiato i miei cinque anni. E giusto ieri la mia prima laurea. In programma ci sono il diciottesimo e qualche bel voto a scuola. Piccole grandi celebrazioni in differita, per imparare a puntellare la quotidianità con brindisi e soddisfazione; per ribadire un irrevocabile diritto di cittadinanza a momenti importanti, troppo spesso passati in sordina. Una nuova consapevolezza fa da cornice a ognuno di questi: non è mai troppo tardi per farsi spazio, per riconoscersi.
Ebbene sì, si può stare al centro dell’attenzione sotto sguardi clementi, generosi, fin amorevoli. Essere “la regina della festa”, che stavolta nessuno rovinerà con musi o ferite narcisistiche.
Passeggiando, questa mattina, ho realizzato quanto il mio sguardo sia cambiato negli ultimi due anni, grazie all’analisi e ai meravigliosi incontri che sono seguiti a un diverso allineamento interiore. Uno sguardo non più volto all’indietro, concentrato su quello che è mancato, su ciò che non c’è stato, che non ho ricevuto. Ma puntato in avanti, gonfio di speranza e forte della certezza di poter fare, di poter essere, di poter scrivere un finale diverso. Non più una vittima di una storia inventata da qualcun altro, ma autrice di me stessa e di ciò che sarà.
Il passato è un bagaglio ingombrante, talvolta anche doloroso. Ma scopro con sempre più sollievo che non si tratta di un destino o di una condanna ineluttabile. È ciò da cui proveniamo, qualcosa che parla di noi e delle nostre premesse; che, a volte, possono prendere la piega di un “benché“. È l’incipit della nostra storia, che resta ancora tutta da scrivere. E che a volte, quando cambia la luce, ci si può stupire a rileggere, persino sorridendo.
Di cosa rotte, di sentimenti sfatti, di arti mutilati. Mettere una toppa: sui pantaloni preferiti, su un elettrodomestico che non ha ancora finito il suo lavoro, su un sentimento che non ha ancora prosciugato la sua forza vitale. Il verbo della speranza che ha sempre premesse dolorose. Il verbo dell’impegno: con ago e filo, con lo stucco e il silicone, con le scintille della saldatrice. Con il tempo necessario a comprendere e il coraggio necessario ad agire sulla base della comprensione.
Diverso da aggiustare, non è far tornare tutto come prima: il rattoppo si vede e si deve vedere. Come quelle toppe colorate su un jeans altrimenti insipido, altrimenti banale.
Rattoppare che è anche personalizzare: la scelta meticolosa del materiale giusto, del colore che si abbina, della dimensione che non rovina l’armonia. Ma anche toppe scelte nella fretta perché, a volte, siamo umani, conta più di tutto tappare il buco. Toppe che si possono anche scucire che non è per forza una ricetta che va bene per sempre. Toppe che a volte saltano i punti, perché erano cucite male. E tornare a cucire, a stuccare a saldare.
Rattoppare come alternativa, come compromesso, come comprensione. Il nemico di stoffa dell’assolutizzazione e della rigidezza. Come possibilità di non dover sempre “fare a meno di rompere”, perché a volte la disattenzione capita e non succede niente, se ci si ricorda che si può rattoppare. Come ottimismo della vita e positività dell’anima: disposizione di chi non crede che sia troppo tardi, di chi guarda avanti. Toppe messe già in partenza. La dottrina cristiana della Provvidenza divina e del perdono, una salvezza che si fa ogni giorno, di contro al fanatismo senza appello di chi vuole tutto predestinato.
Rattoppare che è arricchirsi e crescere insieme: l’arte di sbagliare. Toppe che uno le vorrebbe anche evitare. Per chi ama accontentarsi e chi non ne ha mai abbastanza.
Toppe che significano valore; che quello che conta è non buttare via.
Non era ancora consapevolezza nitida, solo un abbozzo di intuizione. Rabdomante, ho avvertito in una serie di epifanie il primo sentore della direzione da seguire. E iniziavo così il cammino, tutt’ora in corso, della costruzione della versione migliore di me.
Costruire che è fondare, che a sua volta è tornare alle fondamenta. È scavare a mani nude nel proprio passato – senza paura di sporcarsi – e riuscire a fare qualcosa di ciò che semplicemente è capitato. Anche e soprattutto di quello che, a prima vista, non ci piace o fa ancora molto male.
È tirar su l’edificio della propria esistenza dandole la forma che più sentiamo assomigliarci, adattando via via la struttura alle irregolarità del terreno e valorizzando anche le crepe del materiale che si ha a disposizione.
Costruire me stessa, per me, significa trovare percorsi alternativi per far sì che un trauma – un dolore, una ferita, una sofferenza lunga una vita – non si trasformi in una trama – uno schema ripetitivo che diventa trappola e inesorabile destino. È cercare di scrivere, ogni giorno, un finale diverso dal “tanto deve andare così“.
Abbiamo la possibilità di scegliere cosa fare del dolore (sempre, anche quando questo capita tra capo e collo, ingiusto, accanito) e, con forza e volontà di vita, generare bellezza con una ribellione gentile al proprio destino. Non a caso, il fiore di loto, controcorrente, osa addirittura germogliare dal fango!
«Il figlio, ogni figlio, ha sempre la possibilità di modificare il destino che ha ricevuto dai suoi genitori, porta con sé, sempre, la possibilità di riscrivere in modo nuovo, quello che gli Altri hanno scritto di lui»
Conoscere a fondo il proprio trauma, guardarlo nei suoi (spesso inspiegabili o indicibili) perché e contorni, è il primo necessario passo per poterci fare pace. Per non ripetere, come in un disco incantato, sempre gli stessi percorsi. Vicoli ciechi che non portano da nessuna parte se non alla totale frustrazione.
Se mi guardo indietro, rimango incredula per la strada fatta. Proprio io! Con una costanza che mi stupisce e che mai avrei creduto di avere. Mi abbandono a una gratitudine piena e, come raramente accade, mi stringo in un abbraccio orgoglioso di me.
«Ci vuole costanza per non cedere a Papà Trauma e Mamma Ossessione. Per riconoscere il proprio mito: e poi tradirlo.»
(Voglio pensare che non sia un caso che il mio primo incontro con la psicanalisi portasse proprio il nome di Costanza.)
Era il mio gioco preferito da bambina. L’unico che ricordi in maniera vivida.
Si faceva in macchina, durante i rari viaggi tutti e quattro insieme. Federica e io sedute sul sedile di dietro, mamma e papà davanti. La musica francese (che all’epoca consideravo insostenibile, io volevo sentire gli 883!) veniva spenta e, come mai accadeva altrove, si lasciava spazio alla leggerezza.
A turno qualcuno pensava a un conoscente comune e gli altri giocatori dovevano indovinare di chi si trattasse, avendo solo a disposizione la domanda «se fosse..?». «Se fosse un libro, quale sarebbe?», «Se fosse una canzone?», «Se fosse un periodo o un personaggio storico, un cibo, un mese dell’anno?». A parlare di quella persona erano i suoi gusti, tratti evidenti della sua personalità, qualcosa che a tutti ricordava proprio lui o lei. Associazioni libere ma accurate, fantasia a briglie sciolte, profili di persone fatti di sole, pasta al pomodoro e Napoleone Bonaparte.
È un gioco che mi piace ancora oggi, uno dei pochi che conosco. Un modo delicato ed evocativo per parlare di sé.
Se fossi un colore sarei Verde. Dal sottobosco alla vita che rinasce. Come i miei occhi, come l’equilibrio e la riflessività. Come l’energia e il via libera dei semafori. Come la speranza che non si affievolisce. Giallo e blu, è il colore che assume in sé la contraddizione e la rende bellezza : luce e buio, i due volti del mio animo.
Se fossi una favola, sarei Il Colombre, di Dino Buzzati. Uno strazio e un monito bellissimo, un invito a vivere qui e ora, a non replicare le paure di chi ci ha cresciuto, ad aspirare alla felicità.
Se fossi un modo verbale sarei il Presente. Indicativo o congiuntivo che sia. Il tempo del qui e dell’ora, il tempo del sentire, del ricordo e dell’attesa. La risposta all’appello fin dai tempi della scuola; che ribadisce il diritto a occupare il proprio spazio vitale. Il tempo delle affermazioni, quello che suona gentile dopo i “nonostante” e i “benché”.
Se fossi vino sarei rosso, mediamente corposo e inebriante. Lasciapassare per conversazioni meno abbottonate e per il meglio di sé.
Se fossi un animale sarei un gatto. Il felino per eccellenza. Più che un animale, un guardiano psichico. Custode dell’anima, per pochi. (S)elettivo, elegante, discreto. Mai di troppo. Fedele, a modo suo. Liberamente.
Se fossi un senso sarei l’olfatto, senza dubbio. Per quanto ogni tanto in gara con gli altri, la centralità dell’odore resta sempre imbattuta. La mia memoria è olfattiva, la codificazione di situazioni ed esseri umani anche; mi oriento nel mondo così. Decisamente in contrasto – ma non contraddizione – con la mia razionalità. Con il mio essere anche una creatura cerebrale. Fiuto, istinto: gli odori segnano i territori accessibili, il grado delle distanze – o dei contatti -, i riconoscimenti e i disgusti. Spirituali e non.
Se fossi punteggiatura, sarei punto e virgola. Che non è fine, ma respiro. È un “non è ancora finita”, un “ce n’è ancora”. Un po’ da insaziabili. Da incolmabili. Da gente che vuole sempre qualcosa di più. Che mette i puntini sulle ‘i’. Feticismo dell’esattezza: ne sono affetta. È più riflessiva della virgola e meno esplicativa dei due punti. È rara, spesso dimenticata. E, come tutti i cimeli, si riveste per me di fascino.
Se fossi una parola sarei ‘Quasi‘: m’incanta per il senso di precarietà che ispira. Per quell’intrinseco non so che di non finito. Per quel qualcosa che non c’è, in divenire. Per il mio non sentirmi abbastanza, per il mio non aver ancora imparato che la perfezione non esiste. È una parola liminale, che segna il confine tra tutto e niente. Eppure è così densa. Dice e non dice, vedo e non vedo. Il punto più alto, dopo il quale non si può che iniziare a declinare.
Se fossi una stagione sarei Autunno. Perché è una stagione saggia, che sa far tesoro del “prima” e custodirlo durante il freddo. Una stagione che non dimentica e conosce la pazienza. Perché è una stagione realista, che sa che niente dura per sempre. Stoica, non teme la fine perché consapevole che prima o poi tornerà un inizio. Per quell’odore di pioggia prima che cada che si sente solo tra ottobre e novembre. Inconfondibile. È la stagione in cui ricordo cosa significhi riparo. È la stagione della malinconia, che trovo un sentimento bellissimo.
E, però, se fossi una citazione, in cui c’è tutta me, sarei «Nel bel mezzo dell’inverno ho finalmente imparato che c’era in me un’invincibile estate».
«L’amore non è mai il frutto di un calcolo; non è amore di un insieme di qualità che definirebbero l’amato. Non è mai amore di qualcosa, ma di tutto. Di tutto ciò che io vedo e sento appartenere all’Altro.
Quando si ama non si ama mai solo una parte dell’Altro, non può esistere un Amore parziale. L’amore richiede amore per l’Altro in quanto tale; non per l’Altro che combacia con la rappresentazione idealizzata di noi stessi, non per lo specchio dell’Altro.
L’incontro d’amore si realizza non come un rispecchiamento narcisistico, ma come una rottura dello specchio, come esperienza di un Altro che non mi somiglia, che diverge da mio Io, di un Io che non sono Io.
L’incontro d’amore, direbbe Lacan, è sempre l’incontro con un amur, con qualcosa che resiste nella sua alterità, come un muro, un “amuro” appunto, qualcosa che non si può possedere, né valicare, né assimilare. Si ama sempre nell’Altro non il simile a noi ma l’amuro. È questa divergenza – la divergenza dell’amuro- questo scarto, che può rendere l’amato davvero insostituibile, ovvero amato in tutti i suoi dettagli. Desiderato, voluto, amato non per qualcosa ma per tutto.
In questo senso, come ricorda ancora Lacan, l’amore è sempre amore non di una qualità dell’amato, ma del suo nome proprio. È “amore del Nome”, dove “Nome” sta per “tutto”, per tutto ciò che l’Altro è nella sua alterità”.
L’amore non è empatico, non è immedesimazione, non è unificazione ma è amore per l’alterità, non per il simile, ma per il dissimile, non per l’uguale, ma per il differente. Proprio per questo ogni dichiarazione d’amore è rivolta a un’oscurità, a un mistero insondabile:
Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t’amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l’ombra e l’anima.T’amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno. (Pablo Neruda) »
[Massimo Recalcati, Mantieni il bacio]
Un frammento di un autore a me molto caro. Che sa trovare le parole, che sa scavare dentro al significato, dilatandolo fino a farne “senso” più alto. Due anni fa, il mio primo incontro con la psicanalisi, il primo passo verso la versione migliore di me.
Articolo pubblicato su Micromega, Luglio 2016 [e nemmeno me lo ricordavo. Rileggendolo, verrebbe voglia di riprendere in mano libri, carta e penna. E tornare a sentirmi a casa]
Sentirsi a casa. La dimensione domestica come antidoto allo smarrimento di un mondo globalizzato
«‘L’essere a casa’ sembra essere una delle poche costanti della condizione umana»[1] (Agnes Heller)
Il mondo globalizzato, nella sua
porzione occidentale e contemporanea, è soggetto a trasformazioni costanti. Il
rischio, dove non già diagnosi lampante, è quello di uno smarrimento diffuso.
Sebbene lo stress da cambiamento sia una controindicazione insita da sempre nella condizione umana, i mutamenti in atto risultano particolarmente pervasivi e disorientanti. Il motivo di tanto straniamento è rappresentato, in particolare, dal fatto che queste trasformazioni vanno a intaccare – rivoluzionandole – le due dimensioni fondamentali entro cui si colloca l’agire umano: lo spazio e il tempo. Da contenitori immutabili di ogni esperienza possibile, le due forme imprescindibili per l’esistenza vengono messe in discussione nella loro capacità di donare senso.
Sullo
sfondo di un mondo che cambia repentinamente le strategie adattive risultano
varie e variegate. Eppure c’è un denominatore che le accomuna: pur nelle
differenze, nonostante la miriade di declinazioni possibili, l’“essere a casa”
sembra essere una delle poche costanti della condizione umana.
A
partire da questa constatazione, e date queste premesse, l’oggetto di indagine
del presente lavoro è costituito dal significato del “sentirsi a casa”;
proposto quale antidoto allo smarrimento prodotto da un mondo (sempre più)
globalizzato.
Crocevia
di significati, la “casa” costituisce il punto di giunzione tra dimensioni
eterogenee (non ultime quella emotiva, sociale, politica ed economica). Solo
integrando prospettive e chiavi di lettura tra loro complementari è possibile
restituire la complessità che è propria dell’abitare; fenomeno che
costituisce l’asse portante della vita di ciascuno.
Globalizzazione
e (ipotesi di) smarrimento
Il
termine “globalizzazione” è senza dubbio evocativo e, allo stesso tempo,
rimanda a un fenomeno estremamente complesso che presenta non poche difficoltà
analitiche.
Fatta
propria dal lessico specifico di molte discipline, abusata dal senso comune,
cornice di riferimento – e insieme categoria esplicativa – dell’epoca in cui
viviamo, la globalizzazione è un fatto che, benché ineludibile, risulta
irriducibile alle singole variabili che pure lo caratterizzano.
Per
comprendere fino a che punto si abbia a che fare con un tema che resiste a
inquadramenti comprensivi e banalizzanti, sarebbe sufficiente anche solo
confrontarsi con la difficoltà che si incontra ogni qualvolta si voglia
affermare, univocamente ed esaustivamente, di cosa si tratti. Infatti,
nonostante i tentativi convergano sull’idea che possa essere considerato un
fenomeno di «crescita delle reti di interdipendenza planetaria», le definizioni
che ne vengono date riflettono la sua natura intimamente multidisciplinare.
David Harvey, per citare solo alcuni tra i più autorevoli autori sul tema,
definisce la globalizzazione in termini di «compressione spazio-temporale,
Manuel Castells come «interconnessione in rete (networking)», Anthony
Giddens sostiene che si tratti primariamente di «azione a distanza».
La globalizzazione, inoltre,
intrattiene un rapporto biunivoco con la modernità, tema che, a sua volta, è da
almeno mezzo secolo a questa parte oggetto di acceso dibattito. Da un lato,
infatti, la prima è interpretabile come prodotto di tratti intrinseci della
modernità, così come questa si è realizzata nell’emisfero Occidentale, quale
radicalizzazione di processi in atto da tempo; dall’altro, la globalizzazione –
attraverso la facilitazione e la velocizzazione di spostamenti e contatti – ha
creato «condizioni favorevoli alla modernizzazione dei paesi in via di
sviluppo, a cominciare dalla Cina e dall’India, facendo della condizione
moderna una condizione realmente globale».
Se
poi la stretta correlazione tra modernità e globalizzazione è unanimemente
condivisa, la discussione non è invece altrettanto concorde sul carattere di
novità storica di tale fenomeno globale.
Una
prima contrapposizione a tale proposito è quella che vede confrontarsi
‘iperglobalisti’, ‘regionalisti’ e ‘scettici’: i primi considerano la
globalizzazione un fenomeno assolutamente nuovo e irreversibile, gli altri
qualcosa di inedito – ma solo relativamente ad alcuni settori della vita associata;
gli ultimi, infine, non ritengono il fenomeno degno di nota, se non per
un’ondata particolarmente intensa di internazionalizzazione dei rapporti umani.
Una
seconda divergenza di opinioni è quella tra NeoLiberisti e NeoMarxisti; questi
ultimi sono convinti che la globalizzazione produca gravi disuguaglianze in
termini di giustizia distributiva e denunciano forti svantaggi subiti dai
soggetti più deboli coinvolti. Al contrario, i NeoLib sostengono invece che la
globalizzazione dia luogo solo a benefici o che, comunque, questi siano
superiori ai costi sostenuti. Infine c’è chi ha parlato della globalizzazione
nei termini di “McDonaldizzazione del mondo”, volendo in questo modo
sottintendere e stigmatizzare una crescente e dilagante omologazione di stili
culturali e standard di vita.
Ciò
detto, sembra ragionevole concordare sul fatto che è difficile, se non
impossibile, giungere a una definizione onnicomprensiva della globalizzazione,
che ne racchiuda in maniera esaustiva la fisionomia, tanto in termini di
caratteristiche quanto di ricadute sugli aspetti della vita di noi tutti.
Con la consapevolezza
dell’unilateralità di questa precisa scelta metodologica, risulta dunque
inevitabile la preferenza accordata a una prospettiva che fornisca le
coordinate interpretative più utili alle finalità di questo lavoro; per tale
motivo si è propeso per la teoria della globalizzazione intesa come doppia
sconnessione.
Giaccardi e Magatti, nel loro La globalizzazione non è un destino, definiscono la globalizzazione come una “doppia sconnessione” e leggono pertanto il fenomeno nei termini di una “rottura” – intendendo, in questo senso, tanto una fuoriuscita dalla tipicità del XX secolo, quanto un’apertura «verso approdi ancora largamente indeterminati».
Secondo
il parere dei due sociologi la globalizzazione ha prodotto due livelli di
criticità: il primo è quello che si verifica da un punto di vista strutturale,
su scala macroscopica; l’altro, invece, è quanto viene avvertito sul piano
della percezione soggettiva.
Sicché,
in prima istanza, diventa inevitabile definire la globalizzazione come un
processo su scala planetaria, in cui a essere messa in crisi è la società,
intesa come sistema.
I
due autori si concentrano su quelli che individuano essere i problemi generati
dalla globalizzazione, così come si evince dai principali studi sul tema,
diagnosticando una perdita di complanarità spaziale di sfere organizzate
secondo una propria logica interna.
A
esser messo in crisi sembrerebbe in primis quello stesso Stato-nazione
che, tradizionalmente, nel binomio con “società”, finisce quasi per diventarne
sinonimo: i suoi confini sembrano essere troppo ristretti e si trovano ad
essere erosi, insieme con la sua sovranità.
Al
tempo stesso, i principali sistemi economici e finanziari muovono verso una
progressiva integrazione su scala mondiale, dal momento che il mercato sfonda i
confini amministrativi; tanto in termini di spazio (assistiamo a un
decentramento produttivo che travalica le frontiere territoriali) che di
simultaneità (“in tempo reale”: questa la parola d’ordine). Soggetti
trans-nazionali (FMI, WTO, multinazionali e finanziatori istituzionali),
quindi, si affacciano sulla scena mondiale, prendendo parte in modo attivo e
consapevole alla costruzione di quello che viene chiamato “mercato mondiale”.
Economia e cultura vanno quindi
sganciandosi dai singoli stati nazionali, tanto che non sono i confini
territoriali, ma i codici e i programmi a delineare i confini veri e propri e a
rappresentare il terreno di scontro.
Sembra quindi difficile che le
varie sfere della vita associata si riconoscano negli spazi istituzionali che
prima le erano propri. La struttura, se così vogliamo chiamarla, si trova a
dover riconfigurare drasticamente i propri riferimenti concettuali e le proprie
coordinate spaziali.
La dimensione micro: una sconnessione soggettiva
Che si voglia considerare la
globalizzazione in senso rivoluzionario (intendendola cosi come qualcosa di
assolutamente nuovo, a fronte del quale nulla potrà più essere come prima) o
meno, questa resta un fatto: nessuno può chiamarsene fuori.
I cambiamenti che si verificano
su un piano macroscopico producono una vera a propria riorganizzazione
dell’esperienza soggettiva; che, come sappiamo, si struttura entro un orizzonte
di senso spazio-temporale, il quale costituisce condizione e simbolo dei
rapporti tra gli uomini.
Quella
perdita di complanarità spaziale di sfere organizzate secondo una propria
logica interna, che si verifica a livello strutturale, si traduce in una
“pluralizzazione dei mondi della vita”, che non sono più legati a un unico
spazio.
Emergono
così due fondamentali punti nodali della questione: da un lato il processo di disembedding
tematizzato da Giddens e definito come «l’insieme di quei meccanismi che
enucleano l’attività sociale dai contesti localizzati e riorganizzano i
rapporti sociali su grandi distanze di spazio-tempo», producendo così veri e
propri mondi “disancorati”.
In seconda istanza, poi,
cruciale è stato l’avvento di Internet che, attraverso la possibilità di
un’interazione sganciata dallo spazio e dalla realtà materiale, ha provocato un
vero e proprio shock esperienziale,
se non addirittura una rivoluzione delle esistenze.
Lo
spazio, rinegoziato sempre di più nelle sue capacità di definire cosa è lontano
e cosa non lo è, appare sempre meno capace di conferire senso alla vita
individuale: «si può dire che quando l’immagine di Nelson Mandela ci diventa
più familiare della faccia del nostro vicino di casa, allora qualcosa è
cambiato nella natura della nostra esperienza quotidiana».
In
riferimento a questo processo di “de/ri-territorializzazione”, ovvero di
ripensamento dello spazio e delle sue funzioni, Giddens parla di
«fantasmagorizzazione del luogo», a indicare proprio questa progressiva
incorporazione e compenetrazione di vicino e lontano.
L’ispessimento
dello spazio, d’altro canto, «produce non solo una frammentazione, ma anche un
impatto sulla dimensione temporale»: il passato rappresenta sempre meno un
patrimonio comune, il futuro appare rischioso se non ansiogeno, il presente
tende a ‘cannibalizzare’ le altre dimensioni.
«I
nuovi scenari che si vanno profilando mettono in questione due
caratteristiche-chiave, storicamente indiscusse, della spazio-temporalità. La
prima è la capacità che lo spazio fisico ha avuto sino a oggi di contenere
l’esperienza degli individui entro una dimensione delimitata con certezza […]
tutelandola dal rischio di dispersione. […] La seconda caratteristica è la
capacità del tempo di sostenere un’idea di trascendenza, grazie alla quale le
singole biografie possono acquisire uno spessore temporale».
Questo contatto quotidiano con
mondi plurimi – dovuto alle accresciute mobilità e velocità – ha prodotto un
vero e proprio “contraccolpo” sul piano della coscienza, con implicazioni
identitarie e relazionali: trovare un senso unitario risulta sempre più
difficile.
Lo
spazio fisico sembra sempre meno capace di conferire significato alle vite
individuali e di costituire una cornice di riferimento stabile che sia adeguata
alle sfide del presente.
David
Harvey, per esempio, in quella che si può definire una sorta di analisi
genetica dell’attuale crisi nella nostra esperienza spaziale, fa risalire una
spiegazione – tra le altre – alla struttura stessa della nostra fisiologia: «non
possediamo ancora l’apparato percettivo per affrontare un nuovo tipo di spazio
in parte perché le nostre abitudini percettive si sono formate in un vecchio
tipo di spazio».
Infatti,
lo spazio fisico stesso perde la compattezza epistemologica e orientante che lo
contraddistingueva, così come evidenziato da Stephen Kern: «la riflessione
speculativa sull’esistenza di spazi bi-tridimensionali, diversi dallo spazio
descritto da Euclide, e sul carattere soggettivo della nostra esperienza dello
spazio in quanto funzione della nostra fisiologia unica turba il senso comune».
Le
trasformazioni continue del mondo in cui viviamo fanno sì, poi, che la nostra
esperienza soggettiva venga accumulata in mondi disancorati, dove le relazioni
sociali si estendono su una scala spaziale molto più ampia. Le strutture
astratte in cui operiamo permettono contatti tra persone completamente estranee
tra loro, producendo su queste un senso di “prossimità a-spaziale”.
«Le
nuove opportunità offerte dalla comunicazione telematica contribuiscono in
maniera straordinaria a potenziare questo tipo di esperienza, con la crescente
capacità di interazione mediante codici astratti in tempo reale su scala
mondiale».
La
globalizzazione, dunque, viene configurandosi come un processo di progressiva
astrazione dello spazio che si traduce, attraverso la creazione di reti, in
nuove modalità di connessione fisica e simbolica. I nostri mondi di vita,
infatti, vengono di continuo invasi da eventi, relazioni ed esperienze
distanti: entriamo costantemente in contatto con mondi simbolici e culturali
che esulano completamente dal nostro raggio d’azione, relazionandoci con gli
altri, anche quando questi non sono fisicamente presenti.
«Questa
astrazione va nella duplice direzione di una smaterializzazione
dell’esperienza», in quanto la comunicazione mediata comporta la perdita di
indizi ed elementi simbolici, «e di una sua delocalizzazione», nel senso
che il contesto fisico del soggetto non costituisce più un vincolo e risulta –
così – facilmente scavalcabile.
La
compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra
rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti
temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è», ha
trasformato la nostra sensibilità e la rappresentazione che abbiamo del mondo
diventando uno degli elementi caratterizzanti della nostra contemporaneità.
Al
punto che – come effetto di tale compressione – qualcuno ha parlato di “fine
della geografia”, almeno così come la conoscevamo. Zygmunt
Bauman, in particolare, dà una lettura di questo fenomeno in termini negativi,
di “depauperamento”: «lo spazio è il sedimento del tempo necessario per
annullarlo, e quando la velocità del movimento del capitale e dell’informazione
eguaglia quella del segnale elettronico, l’annullamento della distanza è
praticamente istantaneo e lo spazio perde la sua materialità, la sua capacità
di rallentare, arrestare, contrastare o comunque costringere il movimento;
tutte qualità che sono normalmente considerate i tratti distintivi della
realtà. In questo caso la località perde valore».
A
fronte della pluralizzazione dei mondi della vita ci troviamo ad essere qui e
allo stesso tempo altrove. Il sempre più evidente processo di
delocalizzazione, così come tratteggiato, oltre all’estensione delle possibilità
sembrerebbe produrre – però – anche spaesamento, «sentimento in sé complesso e
multiforme che può corrispondere a diverse modalità del rapporto con lo spazio»
nella misura in cui lascia al soggetto individuale la responsabilità di
rielaborare consapevolmente l’ordine dei significati in cui siamo immersi.
Il
mondo sembra restringersi in un click: le distanze diminuiscono per
effetto della drastica riduzione del tempo che occorre per attraversarle, non
solo fisicamente ma anche virtualmente.
Profondo quanto sfuggente,
intimamente indefinibile, il tempo entra in maniera pregnante e pervasiva in
ogni ambito della vita e della ricerca umana, rappresentandone una coordinata
fondamentale; tanto per orientarsi nel mondo, quanto in virtù del suo essere
funzione della possibilità di una continuità biografica.
Bussola
complementare allo spazio, il tempo costituisce altresì il metronomo delle
esistenze individuali; scandendo il susseguirsi delle ore e dei giorni,
permette all’Io di riconoscersi uguale a se stesso nel prima e nel dopo.
Attraverso la connessione di passato, presente e futuro svolge un ruolo attivo
nella costruzione delle identità.
La
globalizzazione, come si è visto, ha prodotto profondi mutamenti nel modo di
vivere e interpretare lo spazio; non diversamente accade per il tempo che ad
esso è indissolubilmente complementare.
Tanti spazi e nessuno: S.O.S smarrimento
L’attuale
e ineludibile ripensamento delle coordinate spazio-temporali produce una serie
di ricadute sul rapporto che gli individui intrattengono con quanto li circonda
e, di conseguenza, anche con se stessi.
In
linea con quanto sostiene Hartmut Rosa nel suo recente Accelerazione e alienazione, è possibile individuare la principale
di queste conseguenze negative in una sorta di “alienazione iperbolica”, ovvero
in un atteggiamento – che è in primis vissuto – di estraneità (talvolta
indifferenza, più spesso avvilimento e frustrazione), che non risparmia nessuno
dei vari livelli dell’esistenza. Siamo alienati nei confronti dello spazio,
poiché perdiamo costantemente intimità nei confronti degli ambienti
circostanti; siamo alienati nei confronti del tempo stesso, inteso in senso
assoluto, dal momento che siamo disincentivati (se non impossibilitati) a fare
investimenti emotivi a lungo termine; siamo alienati, in definitiva, da noi
stessi in quanto il mondo – a fronte, forse, di meccanismi difensivi per
l’inattuabilità dell’avere mordente sulla realtà – si fa sempre più freddo,
oggettivo, distante.
Lo
sradicamento, che questa alienazione comporta e allo stesso tempo riproduce, è
quanto già Simone Weil individuava come vera e propria patologia
dell’Occidente: si vanno smarrendo punti cardinali fermi e, con questi, fonti
di appartenenza e identità. Il passato – così come il futuro – costituiscono i
fondamenti di quello che rappresenta «il più importante e misconosciuto bisogno
dell’anima umana»: il radicamento.
In
un commento al proprio progetto di studio per una “Dichiarazione degli obblighi
verso l’essere umano”, l’autrice scriveva: «l’anima umana ha bisogno più di
ogni altra cosa di essere radicata, in molteplici ambienti naturali e di
comunicare con l’universo per loro tramite […] È criminale ciò che ha per
effetto di sradicare un essere umano o di impedire che questo metta radici».
Il
radicamento, oltre che una modalità di percezione della realtà – che fa sì che
ci si avverta come “situati” e “autori” delle proprie esistenze – rappresenta
un presupposto ontologico imprescindibile per l’essere umano. A fronte della
molteplicità degli stimoli a cui siamo sottoposti, riemerge quindi
prepotentemente una domanda identitaria forte.
Se
non c’è un tempo assoluto e sacro esistono, però, tempi e luoghi singolari che
si possono consacrare; se non esiste un senso della storia, non per questo le
esistenze individuali non possono averne uno. Se non esistono identità
ascritte, queste si possono costruire.
Se
le “grandi narrazioni” non ci convincono più, esiste un’alternativa allo
sradicamento, il quale non costituisce un destino ineluttabile. Al bisogno di
riconoscimento di sé, con gli altri e nel mondo, si può rispondere attraverso
un racconto più intimo, personale, individuale. Autobiografico. Benché le varie
sequenze di vita siano incorporate all’interno di una contiguità dei tempi,
tipica di una società altamente differenziata, riuscire a ordinarle significa
stabilire relazioni dotate di senso; e, in tal modo, ri-fondare la propria
identità.
«Narrare
di sé significa mettere dei confini e allo stesso tempo superarli; significa
anche stabilire una continuità, non come nesso univoco di causa-effetto, bensì
come possibilità di riconoscere un filo che ci lega al passato e al futuro. La
narrazione come spazio che contiene e apre nello stesso tempo […] sembra
rispondere al difficile compito di tenere insieme la molteplicità e
l’incompiutezza dell’io contemporaneo e il suo bisogno di riconoscersi ed
essere riconosciuto».
Se
a livello di spazio disancorato lo spaesamento è condizione diffusa, esiste
tuttavia un luogo del radicamento in cui è possibile rielaborare consapevolmente
gli spunti individuali, sociali e culturali e produrre, così, significati che
siano orientanti nel mondo. Attraverso la narrazione biografica questa
rielaborazione avviene in uno spazio simbolico comune all’umanità intera: la
casa.
Il
luogo del radicamento presenta tre caratteristiche che ne definiscono la
natura: «è identitario (ogni essere occupa il suo luogo che diventa costitutivo
della sua identità personale) relazionale (ogni essere è situato in una
configurazione di insieme) e storico (perché coniuga l’identità e relazione a
partire da una stabilità e da un senso di continuità […] La casa costituisce
per il soggetto contemporaneo un luogo antropologico, un centro di stabilità e
continuità, sicurezza e prevedibilità, in un mondo sempre più complesso,
dinamico, incerto».
Da
qui la necessità di indagare cos’è che “fa casa” e in che forma questo
sentimento si realizzi nelle sue varianti contemporanee.
Ciò
che è indubbio, nonché trasversale a tutti i significati che “casa” assume, è
il fatto che “qui” le cose che ci circondano raccontano qualcosa di noi e,
attraverso queste, siamo in grado di riconoscerci. Nella dimensione privata
ritroviamo, infatti, una risposta alla ricerca di una rappresentazione fedele
dell’essenza della nostra psiche e dei nostri sentimenti, di ciò che siamo.
Esiste quindi già, ovunque, la
possibilità di riappropriarsi – certamente in una dimensione micro, ma non per
questo meno importante – di quel tempo e di quello spazio che su un piano macroscopico sembrano
sfuggire al nostro controllo e producono estraneità e avvilimento.
Poiché,
incontrovertibilmente, «il contrario di sentirsi alienati è sentirsi a casa».
L’oikosofia di Martin Heidegger
L’uomo
non è l’unico a realizzare ripari, rifugi, case. Esiste, tuttavia, una specificità tutta
umana, la quale fa sì che si possa dire che soltanto l’uomo abita il
proprio mondo: questa è la sua capacità di conferire significati allo spazio e
di connotarlo affettivamente. L’abitare può essere considerato come la
“matrice dell’essere umano dell’uomo”; quanto ci rende ciò che siamo e
descrive il nostro modo di stare al mondo.
A
fronte del dibattito sulla globalizzazione, si registra una paradossale
dicotomia tra il forte straniamento emozionale dilagante e le crescenti
rivendicazioni di riconoscimento di spazi identitari. È in questo quadro di
riferimento che si assiste a un rinnovato interesse per il tema della
“domesticità”, in quanto «la casa rappresenta l’ambito privilegiato
dell’abitare umano».
Il
concetto di domesticità è l’esito di una lunga evoluzione storica, nel corso
della quale una serie di processi macro (economici, politici, tecnologici)
contribuiscono a delineare una sfera specifica dell’esperienza quotidiana. Per
tale motivo la casa può essere considerata, a pieno titolo, come un ponte che
unisce una dimensione strutturale a un piano soggettivo, poiché è in questo
luogo che si condensano le trasformazioni centrali del nostro tempo; in
particolare, è qui che si rende visibile e si cristallizza la distinzione tra
pubblico e privato (processo tipico e specifico della Modernità) ed è sempre
qui che le fratture dovute alle trasformazioni spazio-temporali si possono
ricomporre.
La
semantica di “casa” rimanda a un insieme eterogeneo di fenomeni che non hanno –
in italiano – un riferimento concettuale e linguistico specifico analogo alla
distinzione anglofona tra house e home. Con il primo termine,
infatti, ci si riferisce all’edificio, parte di un insediamento più ampio,
che
costituisce una «testimonianza tangibile di uno stile di vita o di uno status».
Con home, si intende tanto uno spazio fisico, caratterizzato da valenze
affettive (così come da elementi funzionali), quanto uno spazio simbolico,
condizione di familiarità, riconoscimento e appartenenza. Quindi, lo spazio del
radicamento per eccellenza.
Sebbene i due piani non possano essere distinti, il concetto di casa a cui ci si riferirà d’ora in poi – e che si vuole indagare – è da intendersi come quell’emozione-quadro rappresentata dal “sentirsi a casa”; che, come tale, non è necessariamente legata alle quattro mura della propria abitazione. Non è assurdo, infatti, pensare che un camionista si possa sentire a casa all’interno dell’abitacolo del suo camion, lungo la strada che percorre ogni giorno; che per un nomade tuareg il senso di casa sia dato dal deserto intero, ovunque pianti la sua tenda; che a un macchinista questo accada in quelle stesse stazioni che per altri sono non-luoghi.
Infine,
va tenuto presente che le trattazioni su questo tema sono spesso rizomatiche,
scarsamente unitarie e che ancora troppo pochi sono stati i tentativi di
produrre una letteratura specifica sulla domesticità occidentale (a fronte,
invece, dell’infinità di lavori sull’abitare tribale inteso come riflesso di
una specifica cosmologia e gerarchia sociale).
Ci
si potrebbe chiedere come la filosofia, comunemente associata alla trattazione
di oggetti sublimi, possa fornire strumenti interpretativi della vita
quotidiana. In effetti, prima della pubblicazione di Essere e Tempo nel
1927, la quotidianità non trovava asilo nei cosiddetti trattati filosofici; né,
men che meno, in vista di una riproposizione della domanda sull’essere in
generale.
È
Martin Heidegger che «pone sotto lo sguardo indagatore della sua analisi
fenomenologica un mondo che qualche tempo prima sarebbe stato considerato
triviale da una filosofia dedita alla coscienza, all’Io, allo spirito».
Il
filosofo tedesco ci mostra, invece, come pensare l’abitare significhi
pensare concretamente l’esistenza umana: «essere uomo significa essere sulla
terra in quanto mortale, che significa abitare». Queste sono alcune delle prime
parole pronunciate da Heidegger in occasione di un seminario dal titolo Costruire,
abitare, pensare, durante il convegno di architettura tenutosi a Darmstadt
il 5 agosto del 1951.
«È
sicuramente noto che già in Sein und Zeit Heidegger ha tentato di legare
etimologicamente l’infinito di “io sono” al significato di “abitare presso”. A
questi si aggiungono altri rimandi nelle sue opere in cui il filosofo, nel
ripercorrere etimologicamente il significato del verbo essere, indica l’abitare
come suo principale significato»;
ma è solo con lo scritto del 1951 che il filosofo si occupa in maniera
programmatica del rapporto tra spazi e luoghi unitamente al tema dell’abitare.
Il
testo in questione si apre con una dichiarazione di intenti, con la quale
Heidegger si propone di indagare specificamente: «1. Che cos’è l’abitare? 2. In
che misura il costruire rientra nell’abitare?».
Secondo
il filosofo l’abitare non rappresenta una tra le pratiche umane,
bensì il tratto fondamentale della natura dell’uomo – della cui
esistenza spiegherebbe altresì il senso.
Tutto
quanto c’è di umano nell’uomo è Cura, che è colere nel senso di coltivare
(cose e luoghi); che è bauen,
che è costuire e dunque abitare.
Abitare,
luoghi, cura, cose, dunque, costituiscono un armamentario
concettuale che pare suggerire, all’interno dell’oikosophia heideggeriana,
una disposizione antropologica ed emozionale a cui poco bisogna aggiungere.
Tali temi, infatti, unitamente a quelli di significato, familiarità e temporalità,
costituiscono l’asse portante, nonché le linee guida, dell’analisi che si sta
per proporre in relazione al significato del dimorare.
Non
sono queste forse le componenti essenziali del “sentirsi a casa”; di quel
radicarsi che si fa antidoto allo smarrimento?
La casa vissuta
Assunto
che l’abitare è il tratto specifico dell’essere umano, si vorrebbe ora
tematizzare la casa quale attitudine interiore; come quell’«estraneità del
quotidiano che sfugge alla totalizzazione e all’omologazione»: l’angolo di
mondo (in senso fisico ma non solo) che si fa scenario di pratiche quotidiane;
le quali, a fronte delle diverse e originali strategie adattive di ciascuno,
permettono di recuperare la dimensione della memoria e del progetto. Resistendo
così a una compressione spaziale e una diaspora temporale che sembrerebbero
soffocare il passato nonché cannibalizzare il futuro; e, con questi, la
possibilità stessa di un soggiorno dotato di senso.
Ma
cos’è dunque che “fa casa”?
Secondo
Agnes Heller «la familiarità è
l’elemento più importante del sentimento di sentirsi a casa». Questa, infatti, afferisce
a due universi semantici e concettuali tra loro complementari, i quali ne
restituiscono la complessità e la tonalità; che è sì eminentemente emotiva, ma
anche cognitiva e volitiva.
Il
primo riferimento va indubbiamente alla sfera della consuetudine, delle
pratiche abituali: ciò che mi è familiare è qualcosa che conosco (in senso
epistemico) e ri-conosco (in senso identitario); familiare è qualcosa che si
ripete nel tempo e che ho interiorizzato. Che fa parte di me.
A
essere familiari, secondo questo significato, sono le persone (o meglio, le
pratiche che con queste intratteniamo, i gesti), le cose e persino gli elementi
sensoriali.
Il
secondo orizzonte concettuale della “familiarità” è rappresentato dalla
dimensione della confidenza, della forte intimità dei rapporti; che, a loro
volta, richiamano un senso di vicinanza, di complicità e comprensione. Qualcuno
mi è familiare, in questa seconda accezione, se e quando condivide dei
significati con me.
Sempre
secondo Agnes Heller il sentimento di familiarità legato al sentirsi a casa è
sostenuto da una serie di elementi, i primi dei quali sono esperienze sensoriali: suoni, odori, colori.
Chiunque di noi potrebbe dire che odore ha l’ingresso della propria casa, il
bucato fatto come si deve e la torta che solo la nonna sfornava in un certo
modo. Ma anche di cosa sa Natale per le vie in cui si passa abitualmente, o
qual è il fruscio della fotocopiatrice nell’ufficio in cui si lavora da tempo.
Nella
dimensione della “familiarità” l’abitudine si lega quindi strettamente con
l’unicità; con la riconoscibilità di certi elementi, che non possono essere
confusi e che alimentano quel senso di sicurezza ontologica necessario
all’individuo per radicarsi nel mondo.
Questo
è quanto accade anche e soprattutto in relazione agli oggetti, ai contenuti che
ci circondano, su cui quotidianamente vengono depositate non solo aspettative
funzionali, ma anche necessità di rassicurazione: mettere a posto la casa è un
atto ontologico; è la maniera in cui nella nostra qualità di soggetti
incontriamo quotidianamente il mondo.
Risulta
imprescindibile il riferimento alla dimensione relazionale, alle persone; a
quella “comunità” che, insieme a “casa” e a “famiglia”, può essere vista come
parte di una sorta di «trinità ideologica», in cui la casa rappresenta il luogo
entro il quale gli individui «negoziano le proprie vite quotidiane».
Indipendentemente
dal contenuto attribuito al concetto di famiglia, questa può essere definita
come quel nucleo in cui «l’enfasi ricade sull’importanza di ‘fare delle cose
insieme’ e su interessi e attività condivise»; il nucleo in cui operano
“rituali” che sono patrimonio comune.
«Cos’è
un rito? Un rito è un segnale di riconoscimento reciproco. Serve a dire: tu sei
mio, io sono tuo e il modo in cui lo siamo è unico al mondo […] Serve a
ricordarsi a vicenda […], per avere dei complici. Nella vita ne servono molti
di più di quanti si creda». I rituali, dunque, sono quell’insieme di atti o
pratiche normativamente codificati, che formano i modelli culturali di una data
società e svolgono una funzione di trasmissione dei valori e delle norme, di
istituzionalizzazione dei ruoli, di riconoscimento dell’identità e di coesione
sociale.
Nell’accezione
che qui interessa, l’elemento di familiarità contenuto nei riti quotidiani può
essere dato da elementi del linguaggio e del suo uso (le inflessioni locali, i
luoghi comuni, le gestualità che li accompagnano, quelle espressioni di dubbio
conio che solo tra chi è, appunto, familiare, si comprendono), dalla
comprensione immediata e reciproca in
quanto: «casa è quell’habitat che significa comunità. A casa si parla
senza note a piè di pagina e questo è possibile solo a condizione che si parli
a qualcuno che capisce. Si comprende l’altro immediatamente da poche parole, da
gesti, da un retroterra cognitivo comune e già presupposto».
In
questo modo, anche laddove i rapporti interpersonali non sono stretti (nel
senso della consanguineità o della mera contiguità spaziale) o la componente
affettiva è debole, il significato di
“familiare” viene dunque a coincidere con quello di “addomesticato”. «Addomesticare
uno spazio significa dunque creare le condizioni per sentirci a casa (Heller
1999)»; come dice la Volpe al Piccolo Principe, nell’omonimo classico per
bambini e non, “addomesticare significa creare dei legami”.
Concludendo
La
casa può dunque essere letta come la metafora di un testo scritto dai suoi
abitanti, grazie a materiali provenienti da fonti diverse: un vero e proprio curriculum
vitae.
Si
potrebbe dire che la casa rappresenti il “pieno” in cui si condensano
esperienze e speranze; gli ancoraggi rispetto ai rivolgimenti e allo
smarrimento prodotti da un mondo in continua evoluzione.
Quel
“pieno” in cui lo spazio e il tempo, da dimensioni astratte e assolute (e
dunque sfuggenti), si fanno proprie, tangibili.
Si
può ben comprendere come il radicamento (che è connotazione affettiva degli
spazi) costituisca operazione strettamente personale.
Al
riguardo si considerino le strategie adattive che alcune categorie di soggetti
mettono in atto, rispetto a un mondo globalizzato e potenzialmente spaesante. A
riprova che il sentirsi a casa non deve necessariamente costituire una
dimensione complanare all’avere una casa, alcuni esempi molto diversi
tra loro: le giovani coppie (che, pur a fronte di budget limitati, non
rinunciano all’acquisto di una casa e alla gradevolezza dell’arredamento) e il
“fenomeno Ikea”; i nuovi nomadi, che sono senza tetto ma non senza dimora (i
cosiddetti homeless che spesso – pur non avendo niente – arredano lo
spazio che occupano affinché questo sia personalizzato e riconoscibile).
Infine
una forma di radicamento trasversale, tanto in senso spaziale che generazionale,
definibile come “radicamento 2.0”, oggetto di ricerca di una certa avanguardia
antropo-sociologica. Ciascuno di noi, infatti, arreda le proprie pagine social
in modo che esse raccontino qualcosa di ciò che amiamo, vogliamo, siamo.
Queste, insieme agli indirizzi e-mail (spesso indicati come unico recapito al
posto di quello di casa), possono – a pieno titolo – rappresentare un posto da
abitare, in cui sentirsi a casa.
Ciò
detto risulta evidente come, pur a fronte delle rinegoziazioni spazio-temporali
e delle sfide multiformi che la globalizzazione impone, nelle vite di ciascuno
esistano le premesse per una riappropriazione del proprio mondo.
Il
diritto al radicamento, così come questo è stato delineato, potrebbe infine configurarsi
come plausibile chiave di lettura – complementare ad altre prospettive – per la
comprensione di fenomeni di grande attualità e che hanno ricadute in termini di
governance quali l’inclusione, l’integrazione e il riconoscimento
sociale. Uno strumento ermeneutico utile a decifrare quel terreno di azione
politica, all’interno del quadro di riferimento della “restaurazione
post-democratica 2.0” in corso, di cui il Movimento contro gli sfratti (nato
in Spagna nel 2009 e guidato da Ada Colau, attuale sindaco di Barcellona)
rappresenta un grandioso esempio.
Il radicamento, diritto individuale quanto mai vitale in epoca di grandi trasformazioni, costituisce – pur nelle varie declinazioni e sfumature che assume – il destino comune all’umanità intera, di con-dividere la terra.
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